La lunga strada
La prima volta che vidi Gavino lu maccu, era appena finita la stagione estiva dei vacanzieri da diporto.
Non che la zona di Cala Fonna fosse molto praticata dai ricercatori di bellezze naturali, a causa della sua posizione rispetto alle correnti marine, che finivano sempre per portare sulla spiaggia, bella ma sfortunata, ogni sorta di relitto, fosse un pezzo di barca, rimasuglio di un naufragio, fosse qualche pezzo di plastica, segno inconfondibile di quella rovina che la Specie Umana stava portando alla Natura.
Passavo da anni le mie ferie da quelle parti, ma quell'anno qualcosa era cambiato: semplicemente a Luglio avevo terminato il mio periodo lavorativo e avevo subito le tante manifestazioni di affetto, e sicuramente di sollievo, mio e loro, per il mio tanto meritato pensionamento.
Tra pensione e TFR ce n'era abbastanza per acquistare quel pezzo di terra che stava proprio in un triangolo di terra tra il mare e una grande curva della Statale che porta a Castelsardo.
Aveva la calda e selvaggia bellezza di tanti luoghi di questa terra meravigliosa e maledetta, un fascino che non era, per fortuna mia e dei pochi abitanti del posto, una “attrazione turistica”; una specie di anomalia in Sardegna, e per questo motivo ancora più desiderabile, dal mio punto di vista.
Quel mattino, potevano essere le sei di un giorno di fine Settembre, scesi alla spiaggia, un centinaio di metri dalla casa che si trovava in mezzo al terreno. Camminavo tranquillo, godendo del liquido calore della riscacca che mi bagnava i piedi sul bagnasciuga, quando notai in lontananza una figura china in avanti. Sembrava un pescatore, ma non mi sembrava avesse un attrezzo qualsiasi che giustificasse il suo aspettare.
Man mano che mi avvicinavo notavo altri dettagli: pareva avere una quarantina di anni, o forse cinquanta ben portati, i capelli corti e brizzolati, la pelle scura di sole; indossava una maglietta scuira senza nessuna scritta, e un paio di pantaloni neri da pescatore. Un paio di ciabatte erano in attesa a fianco a lui.
Dall'atteggiamento sembrava stesse aspettando qualcosa, oppure ascoltando: era difficile da capire, perché teneva gli occhi socchiusi e ogni tanto girava la testa.
Quando fui a una decina di metri, lanciai un saluto. Immediato alzò la mano, senza girarsi, e disse con voce ferma: “Sh, non sento.” Allora stava ascoltando, pensai e continuai la mia strada, voltandomi un paio di volte per vedere se qualcosa cambiava. Non si mosse.
Al termine della spiaggia risalii verso la statale e andai a prendere caffè e giornali in paese.
Provai a chiedere se sapevano chi fosse quell'uomo, e Baingio, il barista dell'unico bar, mi rispose ridendo: “Ah, Gavino lu maccu, il matto. E' da una vita che gira da queste parti. Lei non l'ha mai visto perché durante la stagione non si vede: verso Giugno sparisce e puf! ricompare a Settembre. Nessuno sa dove vada a nascondersi, e nessuno ci ha mai parlato. Certo che è strano” continuò dopo qualche momento di silenzio “l'ho sempre visto così, fin da quando ero bambino. Certo che sarà vecchio assai, adesso.” Questo pensiero doveva averlo incupito per qualche motivo perché rimase in silenzio per diversi minuti. Poi chiuse con una battuta, giusto per recuperare: “Comunque è matto come una lumaca nel sale.”
L'immagine non mi piacque molto, ma ero molto curioso.
Presi il giornale e tornai indietro per la stessa strada. Già da lontano si vedeva che Gavino non si era mosso. Camminai lentamente e impiegai diversi minuti per raggiungere il punto dove l'uomo stava accucciato intento. Non volevo disturbarlo e non dissi nulla; passando dietro di lui mi venne naturale alzare una mano in segno di saluto. Pensavo non si fosse neanche accorto della mia presenza, ma dovetti cambiare idea, perché anche lui alzò la mano sinistra in un gesto chiaro, stanco e distratto insieme.
Tornai a casa e per quel giorno non ci pensai più.
Il giorno dopo feci lo stesso giro della spiaggia e il rito del saluto silenzioso si ripeté due volte, all'andata e al ritorno.
Passò l'intera settimana, poi qualcosa di inaspettato avvenne.
Stavo passando come sempre dietro di lui e alzavo la mano per salutarlo, aspettandomi il solito cenno, quando sentì, per la seconda volta, la voce di Gavino. Non capì subito cosa mi aveva detto, e non risposi immediatamente. Lui si girò a mezzo e mi ripeté la frase: “Tu ce l'hai il cortile.”
Non era una domanda, non gli assomigliava neanche, ma mi venne istintivo rispondere: “Sì, piccolo ma ce l'ho.” Per qualche motivo che non avrei saputo spiegare, mi resi conto che la risposta era quasi inutile, perché Gavino probabilmente sapeva già che dietro a casa mia, prima dell'inizio del sentiero che porta al mare, c'era uno spiazzo che si poteva anche chiamare cortile.
Quello che disse dopo mi incuriosì ancora di più:” Me lo presti?”
Questa era decisamente una domanda e la risposta mi venne senza doversi pensare: “Certo: a cosa ti serve?”
“Tornare a casa.”
Sulle prime pensai di non avere capito la sua risposta, ma Gavino era già tornato alla sua solita attività di ascoltatore del mare, e capii che non avrei ottenuto altro da lui.
Impiegai una settimana per capire cosa intendesse dire il mio nuovo amico con la sua richiesta. Stavo per uscire per la solita passeggiata, quando nel sentiero incrociai Gavino che stava salendo dalla spiaggia. Lo salutai con la mano, senza parlare come al solito, e lui rispose con la destra; nella sinistra aveva una ruota da bicicletta.
Non si fermò, e lo stesso feci io. Andai fino al paese e tornai con la solita calma.
Sulla strada del ritorno notai che Gavino era tornato nella sua solita posizione, e mi rispose al saluto con la mano sinistra, come al solito.
Arrivato a casa notai che la ruota si trovava esattamente al centro del cortiletto dietro casa mia.
Ero incuriosito, ma non sapevo se rischiare di rovinare un rapporto strano come quello che si era instaurato tra me e il matto, facendo domande. Preferii stare a vedere cosa sarebbe successo.
La ruota era stata il primo elemento, e da quel giorno Gavino arrivava al mio cortile con un nuovo pezzo. Ogni giorno ci incontravamo nel sentiero che portava al mare, ogni giorno ci salutavamo, e lui rispondeva sempre con la destra, perché nella sinistra teneva sempre qualcosa che il mare gli aveva regalato.
Gli oggetti erano i più disparati: copertoni, pezzi di lamiera, bastoni, l'oblò di una lavatrice, sacchetti di plastica. La cosa che maggiormente mi incuriosiva era che Gavino non portava i vari pezzi nel mio cortile ammucchiandoli, ma li componeva, non potrei trovare un altro termine per definire la creazione che stava lentamente sorgendo nel mio cortile. I tanti pezzi sembravano incastrati tra loro, nonostante non gli abbia mai visto usare viti, bulloni o colle o anche solo delle corde.
Nel giro di un paio di mesi circa la struttura era diventata larga circa tre metri e alta altrettanto, una specie di cilindro, leggermente più stretto nella parte superiore; cinquanta giorni durante i quali Gavino aveva portato ogni giorno un pezzo nuovo e lo aveva incastrato nella struttura seguendo una sua personalissima logica.
Un giorno mi stupii di non incontrare Gavino. Mi preoccupai e mi sbrigai a raggiungere la spiaggia. Lo vidi da lontano, e sembrava tornato alla sua antica attività passiva davanti al mare.
Arrivato alla sua altezza alzai la mano per salutarlo, ma lui si alzò mi guardò negli occhi e mi sorrise. E sorridendo mi disse: “Questa notte torno a casa.”
La vicinanza e l'apertura dell'uomo mi avevano un po' imbarazzato e risposi con voce non troppo ferma: “Bene, sono contento per te.” Suonava chiaramente come una frase fatta, ma sinceramente non sapevo come comportarmi.
Lui mi guardava fisso e io mi sentivo più che scrutato, quasi scavato dentro. Con la sua voce morbida riuscì a stupirmi ancora una volta: “Mi presti l'accendino?”
Io non fumavo, ma avevo l'abitudine di tenere sempre un accendino in tasca. Come facesse a saperlo non lo so, ma non me lo feci ripetere.
Gavino lo prese e lo mise in tasca, dicendo: “Te lo ridò.”
“Nessun problema.”
“Te lo ridò” rispose con voce leggermente più dura.
Si risedette e si rimise ad ascoltare il mare. Io andai lentamente verso il bar. Non dissi nulla del nostro colloquio, così come non avevo mai detto nulla a nessuno dello strano rapporto che si era creato tra di noi. Non volevo rischiare di passare subito per matto in un posto dove volevo passare la vecchiaia.
Quella sera andai a dormire presto, intorno alle dieci. Prima di dormire, andai alla finestra di dietro, da dove si vedeva il mare.
In controluce c'era Gavino. Stava guardando la sua creazione.
Se campassi ancora mille anni non saprei dire perché alzai la mano per salutarlo, ma fatto sta che lo feci. E fatto sta che mi rispose. Non credevo di essere visibile nel buio della casa, ma lui evidentemente mi aveva visto. Come aveva visto che avevo il cortile, e l'accendino e tutti i cinquanta e rotti pezzi che aveva portato nel mio cortile e che aveva incastrato.
Mi salutò con la destra, perché nella sinistra aveva l'accendino. Lo vidi perché lo accese un paio di volte, forse per provarlo.
Per un attimo pensai che volesse dare fuoco alla struttura, ma fu un pensiero veloce. Non mi sembrava il tipo, anche se non avrei saputo dire che tipo fosse Gavino lu maccu.
Aspettai diversi minuti, ma l'uomo non si mosse di un millimetro.
A quel punto decisi di andare a dormire: ero comunque stanco e avevo ormai capito che, qualunque cosa volesse fare, l'avrebbe fatto senza farmela vedere.
Ero a letto da cinque minuti quando un'esplosione scosse la piccola casa: porca miseria, l'aveva fatto!
Magari tra tutte le porcherie che aveva portato c'era qualcosa di esplosivo e adesso quel poveraccio se ne stava sparso per tutto il mio cortile. Come avrei potuto spiegare quello che era successo, visto che non ne avevo mai parlato con nessuno?
Mi alzai dal letto e corsi fuori, convinto di trovare brandelli di Gavino mischiati a rottami ovunque.
E invece il cortile era vuoto.
La complessa struttura costruita da Gavino era scomparsa. Ma come era possibile? Tutta quella montagna di immondizia doveva pesare qualche quintale; e poi l'esplosione...
Improvvisamente sentii un leggero urto in terra, vicino a me. Mi chinai e, a tastoni, nella debole luce della luna, trovai un piccolo oggetto, molto caldo, ma non tanto da non poter essere afferrato.
Era il mio accendino. Sembrava caduto da qualche parte lassù.
Istintivamente alzai gli occhi verso l'alto per capire da dove diavolo fosse caduto. In lontananza vidi una luce che dolcemente, vibrando, diventava sempre più piccola e, finalmente, capii.
Gavino lu maccu stava tornando a casa.
NdA: giusto per dovere di cronaca, la zona di Cala Fonna non esiste, me la sono inventata di sana pianta ;)